Tra magazzini e territorio. Intervista a Gianni Boetto (ADL COBAS)
a cura di Anna Guerini e Sandro Chignola
In che misura la scelta di una specifica forma organizzativa e di specifici principi guida segna la prospettiva e l’intervento politico del sindacato di base? Storicamente come avete deciso quali forme organizzative assumere?
Negli anni Settanta e anche per buona parte degli anni Ottanta, questo problema non sussisteva perché la forma organizzata all'interno dei posti di lavoro si dava nei comitati di base, quindi in forme organizzate ma non formalizzate. Tanti erano iscritti ai vari sindacati, ma si riconoscevano nell'organismo di base e nella forma assembleare, i consigli di fabbrica erano organismi aperti. Non come adesso, con le elezioni di RSU o la nomina delle RSA, in cui vengono riconosciuti in linea di massima solo i sindacati confederali, che sono anche gli unici a potere indire le elezioni. Dove abbiamo conquistato i rappresentanti sindacali aziendali lo abbiamo fatto in base ai rapporti di forza, non a un diritto che si esercita a partire da una legge. In passato non c'era il problema di agire con una forma sindacale, con il tesseramento eccetera. Dalla fine degli anni Novanta, invece, con l'avvento di una nuova forza lavoro, specialmente migrante, e quindi con una precarizzazione del lavoro molto più diffusa di quanto non fosse negli anni Settanta, è emerso chiaramente che c'era un vuoto organizzativo, perché i sindacati confederali spesso erano complici di un modello di sfruttamento attraverso il sistema delle cooperative. La necessità di darci una forma sindacale è nata perché quella nuova composizione di classe, soprattutto nel mondo della logistica, aveva urgenza assoluta di organizzarsi e di rivendicare diritti all'interno dei posti di lavoro. L’abbiamo fatto e siamo arrivati ad avere un riconoscimento da parte anche delle varie controparti con le quali abbiamo avuto a che fare, conquistando tutti i diritti sindacali, che adesso sono sotto attacco. Però la genesi della costituzione della forma sindacato che abbiamo adesso, spostata all’80-90% su una forza lavoro migrante, è dovuta a un cambiamento del mercato del lavoro e all'arrivo di una nuova composizione di classe, di persone che non hanno memoria storica del nostro passato [di lotte operaie], e quindi con una linearità di adesione alla forma sindacale che ha consentito loro di costruire le lotte che hanno portato al miglioramento nei rapporti di lavoro. Questo è stato lo sviluppo: la necessità della forma sindacato con il tesseramento e i delegati, ecc., si è data in questo passaggio storico a cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo millennio.
Che differenza c’è tra l’organizzare la forza-lavoro dentro la fabbrica tradizionale e dentro i magazzini della logistica?
È stato molto più facile organizzare i lavoratori migranti. Negli anni Settanta il sindacato era molto forte all'interno delle fabbriche, Cgil in particolar modo, ed era un nemico all'interno del posto di lavoro – lo è anche adesso, ma non con la dimensione organizzativa e ideologica di allora –, e anche il partito, vale a dire il PCI. In tante situazioni avevamo grosse difficoltà a essere presenti, e anche solo andare a volantinare poteva essere un problema, perché il PCI parlava di noi come di “provocatori pagati dai padroni”, e conservava la sua forza perché si considerava ancora un partito rivoluzionario, anche se in forma riformista, specialmente dal ’69 fino al ’73-’74. Dopo, ovviamente, col ‘77, è cambiato tutto: il PCI si faceva Stato e anche il sindacato. Ma in quegli anni i “gruppi Extraparlamentari” avevano conquistato una presenza importante anche in fabbriche di grosse dimensioni – il petrolchimico di Marghera, la Fiat, la Pirelli, ecc. –, oltre che nella fabbrica diffusa, dove c’era una composizione completamente nuova di giovani, uomini e donne, che uscivano dalla scuola professionale e si trovavano a fare un lavoro operaio in fabbrica, e da questa nuova condizione emergeva spontaneamente la necessità di organizzarsi, di avere un rapporto con gli studenti, ecc.
Il radicamento nel tessuto produttivo degli anni Settanta fu il frutto di un enorme lavoro di presenza davanti ai cancelli con milioni di volantini distribuiti. E invece dentro i magazzini della logistica è stato più facile, perché i sindacati confederali sono stati percepiti immediatamente come nemici. Per questo, nel giro di qualche anno, abbiamo avuto una crescita esponenziale. Ma esperienze significative le stiamo avendo anche nella fabbrica tradizionale, nella metalmeccanica, nella chimica, nella gomma, nelle cartiere, ecc, dove aumenta la presenza di lavoratori stranieri e anche qui siamo arrivati col passaparola, anche perché il sindacato è diventato quasi il consulente dell’azienda. Un altro aspetto sul quale ci stiamo concentrando molto è il settore del lavoro povero che comprende milioni di lavoratrici e lavoratori che vivono in una condizione di vera povertà, e organizzarli richiede uno sforzo importante, visto che ti scontri con un’enorme frammentazione.
Quali sono stati i passaggi per la definizione dell’organizzazione politica di ADL? Quali forme di organizzazione tra sindacati e associazioni per i diritti di lavoratori e lavoratrici sono state messe in campo, e con quale intenzione?
In questi ultimi vent’anni, a partire dagli anni Duemila – ADL esisteva anche prima, però era presente soprattutto in alcuni settori del pubblico impiego e in alcune fabbriche tradizionali nella bassa padovana –, ci sono stati passaggi importanti: siamo partiti da Padova, soprattutto dalla zona ex-zona industriale dove le fabbriche sono state sostituite da capannoni di logistica, attraverso un passaparola, perché ovviamente chi lavorava in GLS, in BRT o in TNT a Padova conosceva i lavoratori che erano in GLS a Verona o a Treviso. L’estensione a livello regionale è avvenuta proprio in funzione del fatto che abbiamo cominciato a fare delle lotte a Padova in alcuni magazzini, che però facevano parte di una filiera ben più grande perché GLS ovviamente ha una struttura nazionale. Quindi la crescita organizzativa è avvenuta proprio in funzione di lotte che sono servite come comunicazione diretta: non abbiamo fatto volantinaggi nei vari posti di lavoro, perché la comunicazione avveniva attraverso i lavoratori stessi, i parenti o gli amici che lavoravano chi a Bologna, chi a Parma, chi a Verona, chi a Treviso. Tutto questo insieme di relazioni, che passa attraverso le comunità migranti, ci ha consentito, nel giro di alcuni anni, di estendere una rete organizzativa da Padova a Treviso, poi in Friuli, a Palmanova e Udine, poi a Vicenza e a Verona, poi in Emilia-Romagna – Bologna, ma anche Parma e Reggio Emilia – poi in Lombardia, in Piemonte, in Toscana. Abbiamo costruito una rete di rapporti anche con altre realtà sindacali, come SIALCobas Milano, Confederazione Cobas Lavoro Privato, le CLAP di Roma e SUDD. Questi ultimi sono presenti specialmente in Toscana, dove hanno fatto grandi lotte contro il caporalato nell'industria tessile nella zona di Prato e Campi Bisenzio, portando alla luce un mondo di lavoro sommerso e precario che è tuttavia centrale per le grandi industrie della moda.
La nostra è stata un'esperienza nuova dal punto di vista della storia del movimento operaio, che ha avuto tutt’altre dinamiche, e oggi siamo una rete organizzata con una caratteristica specifica: non abbiamo teorizzato una forma centralistica, ma costruito una forma federata di organismi a livello territoriale. Con questa rete intersindacale embrionale vogliamo arrivare ad avere una visibilità esterna senza fare un'altra sigla, senza necessariamente formalizzarla, costruendo piuttosto una forma caratterizzata dalla condivisione di alcuni valori di fondo, che parta dal principio della solidarietà e della cooperazione tra realtà sindacali nei territori.
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Quali risultati avete ottenuto e quali limiti che avete riscontrato negli anni?
In questi anni abbiamo ottenuto risultati importantissimi, specialmente nella costruzione di campagne comuni anche con altre sigle sindacali, perché siamo riusciti a impattare pesantemente sul piano nazionale nel settore della logistica. Non era mai successo nel mondo del sindacalismo di base che venissero sottoscritti accordi di valenza nazionale migliorativi rispetto al contratto nazionale stesso, con aspetti di contenuto che hanno avuto un significato politico importante, a partire dal fatto di riuscire a cancellare, di fatto, la struttura della cooperativa e la figura del “socio lavoratore”. La forma cooperativa sarebbe una forma nobile di autorganizzazione di lavoratori, richiama le esperienze storiche di cooperative come forme di resistenza di lavoratori e lavoratrici che decidono di cooperare realmente per costruire un progetto sottratto alle logiche padronali. In realtà, poi, la forma cooperativa è stata usata per rendere assolutamente precario il lavoro, senza nessuna sicurezza sul salario, senza copertura della malattia o con una copertura limitata al 50% dell'Inps, su paghe che però erano già tagliate di per sé. La paga base era ben al di sotto delle soglie contrattuali, perché comprendeva la trasferta e altre voci che non andavano a incidere sul diritto al riconoscimento di ferie, tredicesima, pensione, ecc.., in base all’imponibile contributivo e fiscale. In quegli anni il padronato della grande distribuzione logistica ha fatto affari incredibili, con tassi di profitto inimmaginabili: c’erano cooperative e reti di cooperative con 2000 soci e le persone non potevano scegliere se essere socie o no, dovevano esserlo per forza e pagare una quota come socio che arrivava a volte 5 o 6.000 €, con trattenute mensili di 100/ 200 €; poi, quando la cooperativa cessava, se risultava in passivo non avevano nemmeno l’obbligo di restituirti nulla perché risultavi, a tua insaputa, socio della cooperativa. La trattenuta della quota associativa, quindi, consentiva di recuperare ulteriori fondi per coprire le perdite.
Ad usufruire di tutto questo sono stati soprattutto i grandi corrieri. La situazione che c’è oggi non nasce per incanto: c’era una strategia ben precisa che partiva dalla committenza, che incaricava le società di costruirsi in forma cooperativa, perché sapeva cosa comportava. Quando siamo arrivati nei magazzini la busta paga era inguardabile: di 1.000 €, 1.100 €, di cui solo una parte era regolare, il resto era sotto forma di “Trasferta Italia”, e tutto – tredicesima, ferie… – stava in quella che si chiamava “paga conglobata”. Ci siamo scontrati con tutto il mondo delle cooperative, vale a dire con il mondo dei sindacati confederali, visto che spesso i dirigenti delle cooperative erano ex sindacalisti, anche perché la CGIL era in rapporto diretto con Legacoop, CISL con Confcooperative e via discorrendo. Anche la Compagnia delle opere aveva il suo giro di cooperative. Il primo risultato è stato di avere pressoché cancellato la forma cooperativa e del socio; di cooperative ce ne sono ancora, per lo più legate al mondo di Legacoop, ma tutto il resto praticamente è stato smantellato e ci sono quasi esclusivamente SRL e SPA. Da un paio d’anni a questa parte, tutta una serie di aziende del settore logistico ha avviato un percorso volto a mettere in discussione le conquiste ottenute e i diritti sindacali. A partire dal 2015 abbiamo siglato – specie con FEDIT, il “sindacato” dei maggiori corrieri – accordi nazionali migliorativi rispetto al contratto nazionale, che hanno aperto una strada anche per le altre realtà lavorative della logistica, le quali, in qualche modo, sono state costrette ad adeguarsi. Non è più stato conveniente mantenere le cooperative e le SRL, e i più intelligenti hanno capito che internalizzando la mano d’opera veniva eliminata la quota destinata all’intermediazione di manodopera. Tra i primi a capirlo c’è stata ALÌ a Padova. Quando siamo arrivati attorno al 2015, c’erano condizioni allucinanti con cooperative che applicavano contratti con buste paga mediamente al di sotto del 30 % di una busta paga regolare, ma grazie alle lotte siamo riusciti a cambiare sostanzialmente la condizione lavorativa, vincendo anche cause in tribunale da centinaia di migliaia di euro. Dopo questo lungo processo, nel quale siamo riusciti a far uscire i lavoratori da un rapporto di semi-schiavitù, ALÌ, da imprenditore scaltro, ha capito che procedere con l’internalizzazione rappresentava un grande salto di qualità, volto a risparmiare sulla forza lavoro; allo stesso tempo, con il coinvolgimento dei sindacati complici, CGIL, UIL e CISL, ci hanno tolto i diritti sindacali. Ad oggi continuiamo ad avere la maggioranza degli iscritti, ma non i diritti sindacali, quindi non c’è più trattativa; i figli di Cannella, il vecchio proprietario, stanno applicando la logica del padre padrone, per cui gestiscono direttamente i rapporti con le loro maestranze. Lo stesso è successo in Aspiag, contro cui abbiamo vinto una causa per intermediazione di manodopera e sono stati costretti ad assumere direttamente i lavoratori, ma ora se dobbiamo fare un'assemblea dobbiamo far sciopero anche se abbiamo la maggioranza perché ci hanno tolto i diritti sindacali, visto che la legge lo consente, e la battaglia per riuscire a riottenerli non è per niente è facile. Anche in Fedex c’è stata l’internalizzazione con un accordo firmato in segreto con CGIL, con l’intento di ridurre il costo del lavoro e toglierci i diritti sindacali. Il dato positivo in tutto questo è che in questi posti di lavoro i lavoratori sono molto più tranquilli e le forme di controllo sono molto più blande.
Che rapporto c’è tra i risultati ottenuti e la fase che si apre ora, che sembra segnata da logiche diverse? E che impatto avrà questo passaggio di fase sull’attività sindacale?
I risultati sono stati importanti, ma adesso siamo in una fase di cambiamento nel mondo della logistica. Il processo di internalizzazione è destinato sicuramente ad allargarsi, ma con l’obiettivo principale di contenere e limitare le rivendicazioni di filiera. Lo scontro principale oggi attiene al fatto di riuscire ad impedire che l'internalizzazione comporti la cancellazione dei diritti, e sta a noi cercare di contrastare questo tipo di logica. Un ciclo storico si è concluso, perché ora che siamo riusciti a denunciare, e in larga parte a fermare, le forme più odiose di sfruttamento e di schiavitù – anche se ci sono ancora delle sacche – e siamo riusciti fare sì che si instaurassero rapporti “normali” di lavoro dal punto di vista retributivo, contrattuale, ecc.., il nostro ruolo sta chiaramente cambiando. Andiamo verso una situazione in cui non devi più contrastare la più totale illegalità, ma affrontare il problema di come riuscire a mantenere le condizioni migliorative ottenute, compresi i diritti sindacali, che in questo momento sono oggetto di un attacco molto esplicito. In Fedex, in Aspiag, in Alì sono riusciti a toglierci i diritti sindacali grazie al contributo dei sindacati confederali, mentre in BRT, che ha assunto direttamente i lavoratori a Padova e Treviso, al momento, ci riconoscono i diritti sindacali ma non i punti qualificanti già ottenuti con i precedenti accordi, tra cui: i passaggi automatici di livello, i due giorni in più di permesso all'anno, che abbiamo rivendicato nell’ottica di anticipare il ragionamento sulla riduzione dell'orario di lavoro – sono 16 ore in un anno, ma era un dato simbolico importante –, e la riduzione da 24 a 18 mesi per ottenere il diritto di essere direttamente assunti per i lavoratori somministrati, con diritto di prelazione già dagli 8 mesi. Ora si aprirà una nuova fase e dovremmo provare a ricucire anche le divisioni interne al cosiddetto “sindacalismo di base” dovute a un diverso approccio politico e ideologico rispetto al modo di intendere il conflitto capitale-lavoro e le relative lotte.
Dicevi prima che siete presenti anche nelle fabbriche “tradizionali”. Che tipo di rapporto c'è tra due composizioni che si confrontano con meccanismi di sfruttamento diversi, quello logistico e quello più “tradizionale”?
Anche in questo caso bisogna distinguere. I processi di esternalizzazione di alcune funzioni all'interno delle fabbriche “tradizionali” stanno procedendo, come nel caso della Peroni che è diventata una multinazionale, al cui interno c'è una trentina di lavoratori in appalto, che sono fondamentali dal punto di vista del ciclo produttivo, e che però sono “lavoratori di serie B” ed erano in condizioni di grave sfruttamento fino a poco tempo fa. Il problema è che non c'è rapporto tra queste entità. All'operaio di “serie A” non interessa quello che succede all'operaio di “serie B”, e se non avessimo fatto gli scioperi, gli operai di Peroni non si sarebbero accorti della situazione. Così alla Carraro (famosa fabbrica di trattori), dove il reparto della verniciatura, e quindi il più nocivo, era stato appaltato a una cooperativa con tutti i problemi conseguenti. La situazione non è stata presa in considerazione dai dipendenti diretti fino a che non ci sono state le lotte che hanno portato all’internalizzazione del reparto con relativa assunzione dei lavoratori, che fino a quel momento operavano come soci di cooperativa. Lo stesso problema in Grafica Veneta, dove c'era addirittura una condizione da caporalato puro. Anche qui solo la lotta ha svelato un mondo sommerso incredibile fatto di illegalità, intimidazioni e violenza. Ci sono tanti esempi di questo tipo. Poi, c’è un altro aspetto. Nella cartiera a Carmignano di Brenta, alla Modine, all’Italchimica e in alcune fabbriche metalmeccaniche abbiamo partecipato alle elezioni con RSU, perché anche in questi casi il sindacato è sempre più visto come un'appendice dell’azienda: anche tra i lavoratori e le lavoratrici italiane sta crescendo la necessità anche di trovare forme sindacali diverse da quelle tradizionali.
L’attività politica di ADL non è semplicemente sindacale e vertenziale: diresti che l’azione politica di ADL persegue uno specifico agire strategico e su quali piani e snodi interviene principalmente?
L'agire sindacale inevitabilmente non può essere semplicemente vertenziale perché hai a che fare continuamente con problematiche altre rispetto a quelle che riguardano il salario, i ritmi di lavoro, la salute sul posto di lavoro, e in generale le altre questioni strettamente inerenti al rapporto di lavoro. Hai a che fare con problematiche che si riversano immediatamente sull’“esterno”, sulla vita sociale, legate ad esempio alla questione dei servizi. Il cittadino lavoratore e la cittadina lavoratrice oggi hanno a che fare con un’infinità di pratiche legate alla questione fiscale, ai ricongiungimenti familiari per i migranti, agli assegni familiari. Quindi, chiaramente, nel momento in cui fai sindacato, ti confronti con la contraddizione vera, che emerge quando c’è il problema della casa, quando non si sa dove mettere i figli perché non ci sono gli asili, quando il reddito non è sufficiente per pagare anche solo le spese e per mangiare. Il lavoro che facciamo nelle nostre sedi è anche di patronato sociale, per cercare di convogliare tutti gli aspetti che attengono al welfare. Da qui la necessità di organizzare una mobilitazione costante, come abbiamo fatto con la questione dei permessi soggiorno e della cittadinanza, che tocchi gli aspetti della vita anche fuori dal posto di lavoro. Poi c’è l’intervento sul lavoro povero. Lavoro povero significa che a livello legislativo ci sono comparti del lavoro, in particolare la vigilanza privata, le pulizie, le OSS, in cui le paghe sono al di sotto dei livelli minimi di sussistenza; questo diventa di per sé un problema politico, che ci ha spinto a costruire iniziative nelle università, nei comuni, negli enti pubblici che firmano appalti con tutta una serie di cooperative che applicano questi contratti, affinché persone che svolgono ruoli fondamentali – come le pulizie in posti pubblici – abbiano condizioni salariali dignitose. Questo è un aspetto che, per forza di cose, ti porta a confrontarti con una dimensione complessivamente politica, a maggior ragione oggi con l’aumento del costo della vita e la perdita di potere d’acquisto dei salari.
Che rapporto pensi ci sia tra il modo di concepire l’organizzazione sindacale e l’obiettivo dell’intervento politico sindacale? Come riuscite a mobilitare i lavoratori rispetto a questioni che non riguardano immediatamente le vertenze singole e il picchetto fuori dal magazzino?
Esistono forme sindacali, purtroppo che concepiscono il sindacato come “forma partito” che deve indirizzare le masse verso la “rivoluzione socialista”, richiamandosi ideologicamente e lessicalmente a processi e questioni che risalgono all’inizio del secolo scorso. Ovviamente la lotta di classe non è sparita, c’è ancora, ma non siamo più negli anni Settanta: oggi è chiaro che i percorsi di liberazione sono di altro segno, come mostra l'esperienza Zapatista o il confederalismo democratico nella Rojava. Quando finisce un ciclo storico anche le dinamiche conflittuali cambiano di segno e c’è la necessità di ricerca continua. Non si può prescindere della questione ambientale o dalle istanze del movimento femminista quando si combatte la contraddizione capitale-lavoro, non si può pensare che lo sfruttamento capitalistico venga prima di tutto, senza considerare la specifica condizione delle donne. Non possiamo chiuderci in una gabbia ideologica, e la rete che noi stiamo costruendo condivide un ragionamento, anche teorico, che tiene conto delle questioni sollevate dai movimenti ecologisti e femministi. Tra i lavoratori ci sono opinioni di tutti i tipi, noi nello statuto abbiamo alcuni principi fondamentali come l’antifascismo e l’antisessismo, l’antirazzismo, ma è chiaro che poi devi essere in grado di gestire le infinite contraddizioni che incontri all’interno dei posti di lavoro. Ad essere centrale, oggi, è l’aspetto generale del mondo in cui viviamo, con le guerre, la questione del riarmo, quella climatica – ovviamente nel mondo del lavoro dove siamo presenti, specialmente quello musulmano, sentono in particolar modo la questione legata alla Palestina. Cerchiamo sempre di portare quantomeno all'interno delle assemblee la questione ambientale: tutti si rendono conto dei disastri che si succedono continuamente, con le alluvioni e con tutti quei fenomeni collegati al riscaldamento globale, che compromettono la vita delle persone. Per cui il tentativo che noi facciamo, dentro una logica di convergenza e di intersezionalità, è di essere organizzati in forma sindacale, assumendo quelle problematiche all’interno delle nostre battaglie. Infatti, per quanto riguarda la partecipazione a iniziative apparentemente esterne alla questione strettamente lavorativa, specialmente con i delegati, abbiamo partecipato più di qualche volta alle manifestazioni indette Fridays For Future, a quelle sulla guerra e sulla Palestina, agli scioperi dell’Otto marzo. È chiaro che non è semplicissimo, ma quando facciamo le assemblee con i delegati e le delegate, che coinvolgono centinaia di persone, discutiamo sempre di queste questioni. Ovviamente con tutte le difficoltà e i problemi che ci sono, però è fondamentale tenere sempre presente di non fermarsi al piano vertenziale, perché c’è sempre di più la necessità di intrecciare le varie problematiche.

Gianni Boetto